Muoversi 3 2021
18

AIE, DA BALUARDO DELLA SICUREZZA A SUPER CONSULENTE DELLA TRANSIZIONE

AIE, DA BALUARDO DELLA SICUREZZA A SUPER CONSULENTE DELLA TRANSIZIONE

di Giorgio Carlevaro

In questa nuova puntata della Storia del Petrolio, curata da Giorgio Carlevaro, ripercorriamo la storia dell’Agenzia internazionale per l’energia, nata nel 1974 per gestire le prime crisi petrolifere e garantire la sicurezza degli approvvigionamenti.

Oggi la sua mission sembra però cambiata.

Giorgio Carlevaro

Direttore emerito

Staffetta Quotidiana

Nelle ultime settimane l’Aie è entrata prepotentemente nel dibattito sul rapporto tra energia e cambiamenti climatici dopo anni che non ci sono più state crisi tali da richiedere i suoi interventi di emergenza in campo energetico. La prima volta in assoluto era stata nel gennaio 1991, in occasione della “guerra del Golfo”, dopo alcune prove fatte in occasione di quella che è passata alla storia come la doppia “crisi iraniana” del 1979 e del 1980; la seconda nel 2005 in occasione del passaggio dell’uragano Katrina che aveva messo in ginocchio gli Stati Uniti; la terza nel 2011 in occasione della “crisi libica”. Da allora semplici allarmi e qualche monitoraggio in più, come nel settembre 2019 quando droni yemeniti bombardarono due grossi impianti petroliferi in Arabia Saudita e da ultimo in occasione del blackout elettrico che ha messo in crisi il Texas nel febbraio scorso e dell’attacco informatico che in maggio ha interrotto il flusso nel gigantesco oleodotto Colonial in Usa. Senza la necessità di chiamare in causa il Governing Board, l’organo supremo di governo che si riunisce in media 3-4 volte l’anno.

Un dibattito suscitato dal rapporto “Net Zero by 2050. A roadmap for the Global Energy Sector” presentato il 18 maggio scorso dal direttore esecutivo Fatih Birol, in carica dal 2015, e mirato a fornire una base informativa ai negoziati che si stanno svolgendo in vista della prossima conferenza delle Nazioni Unite sui cambiamenti climatici, “COP26”, in programma a Glasgow nel Regno Unito nella prima metà di novembre. Un grande scenario, quello dell’Aie, con una mole impressionante di dati su cui si stanno arrovellando migliaia di studiosi per capirne il senso e le finalità e soprattutto su come inquadrarlo nel mestiere originario di questo organismo: che è sempre stato quello di prevenire e fronteggiare eventuali crisi negli approvvigionamenti di energia e nella fattispecie di petrolio.

Non a caso la proposta di creare quella che venne poi istituita a Parigi il 18 novembre 1974 con il nome di Agenzia Internazionale dell’energia, nell’ambito della già esistente Ocse (l’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico nata a Parigi nel 1948 subito dopo la guerra), era stata lanciata nel dicembre 1973 a Londra da Henry Kissinger che dal gennaio 1969 era assistente per la sicurezza nazionale del presidente Richard Nixon, prima di diventare segretario di Stato (a fine maggio ha compiuto 98 anni). Una proposta che era uscita rafforzata da una conferenza convocata a Washington nel febbraio 1974 dove nacque l’idea di mettere in piedi un vero e proprio sistema di emergenza, anziché affidarsi ad accordi bilaterali. Conferenza dove l’Italia partecipò con il ministro degli Esteri Aldo Moro e il ministro del Tesoro Ugo La Malfa, assistiti da una nutrita delegazione dell’Eni.

Pochi mesi prima, il 6 ottobre 1973, era iniziata quella che è passata alla storia come la “crisi del Kippur”, ovvero la quarta guerra arabo-israeliana innescata dall’invasione del Sinai e del Golan da parte delle truppe egiziane, siriane ed irachene. Mentre le operazioni belliche erano state sospese il 23 ottobre grazie ad una tregua imposta dall’Onu, la decisione dell’Opec e dell’Oapec di aumentare del 70% il prezzo del petrolio, di ridurre la produzione petrolifera araba e di praticare l’embargo contro gli Usa e l’Olanda aveva gettato nel panico tutto il mondo industrializzato. Eravamo nel pieno di quella che è passata alla storia come L’Età del Petrolio quando, nonostante il progressivo deterioramento del quadro petrolifero internazionale, non si era fatto niente per invertire e fermare la tendenza verso una dipendenza sempre più stretta da questa fonte. Basti pensare che quella dell’Italia era arrivata al 74%.

Nell’illustrare la proposta, Kissinger aveva detto testualmente: “La crisi energetica ha cause più profonde della guerra di ottobre; si sarebbe verificata in ogni caso per effetto della crescita esplosiva della domanda mondiale in anticipazione sugli incentivi alla produzione. La sola soluzione a lungo termine sta in uno sforzo massiccio, diretto ad assicurare ai produttori gli incentivi necessari ad aumentare la produzione, ad incoraggiare i consumatori ad usare più razionalmente le disponibilità esistenti e a sviluppare le risorse alternative di energia”.

Parole che rilette cinquant’anni dopo sembrano profetiche e che all’epoca riflettevano un quadro molto allarmante emerso due settimane prima dello scoppio della crisi in una conferenza organizzata a Londra dal Financial Times. Nella quale 500 esperti provenienti da tutto il mondo avevano tenuto un consulto di tre giorni sulla situazione degli approvvigionamenti energetici mondiali. Un evento a cui ebbi la sorte di assistere come inviato del 24Ore, con un servizio pubblicato in prima pagina il 22 settembre sotto il titolo “Campane a martello per l’energia nel mondo – il poco incoraggiante consuntivo di 500 esperti”. Un evento che non poteva essere sfuggito ad un acuto osservatore come Kissinger, tanto più che era presente Charles Dibona, consulente speciale di Nixon.

Gli elementi di giudizio per essere allarmati c’erano tutti, tra cui la necessità urgente di trovare linee di condotta comuni e, se possibile, valide per tutto il mondo industrializzato, onde evitare che tempo 10 anni lo sviluppo economico mondiale subisse un collasso a causa della mancanza di energia. Un’urgenza data dal fatto che la situazione appariva drasticamente peggiorata. Per due motivi: perché la domanda di energia continuava a salire in maniera vertiginosa nel mondo industrializzato e negli Usa in particolare e perché il petrolio non era più disponibile in abbondanza e a prezzi bassi. Con il rapporto riserve-produzione previsto ridursi entro il 1985 a 5 anni. Con il carbone che non aveva problemi del genere, ma doveva trovare le tecnologie per non restare nelle miniere e con l’energia nucleare, ritenuta allora l’erede predestinato del petrolio, che doveva ancora superare una serie di soglie per diventare fungibile e a portata di mano. Con innumerevoli progetti per sfruttare l’energia solare, geotermica, del vento e del mare ancora costosi e non ancora maturi per poter parlare di utilizzazione su scala mondiale. Un quadro in cui l’Italia appariva uno dei paesi più vulnerabili. Con la necessità di rafforzare i legami in campo internazionale e nell’ambito della CEE, per risolvere problemi quanto mai complessi e imponenti per pensare di farcela da sola. Pena il rischio di trovarsi in condizioni di netta inferiorità rispetto alle grandi aree industriali dell’Occidente.

Allarmi e tensioni che si erano fatti più evidenti, anche se di fatto ignorati, nel secondo semestre 1970 quando il costo del petrolio greggio importato in Italia era aumentato, tra maggiorazioni dei prezzi all’origine e lievitazioni dei noli, di oltre 2.000 lire a tonnellata, cioè di circa il 20%. L’impatto maggiore lo subivano le compagnie petrolifere. L’unica misura adottata dal Governo essendo stato l’aumento di 1.000 lire a tonnellata del prezzo dell’olio combustibile approvato dal Cip (il Comitato Interministeriale Prezzi) il 16 dicembre 1970. Una situazione che si era aggravata all’inizio del 1971 a seguito degli accordi di Teheran (14 gennaio) e di Tripoli (19 marzo) firmati dalle compagnie petrolifere internazionali, il primo con i 6 paesi produttori del Golfo Persico (Arabia Saudita, Eau, Kuwait, Iran e Iraq) e il secondo con la Libia. Accordi che segnano l’avvio di una serie di aumenti scalari dei prezzi del greggio e di una radicale revisione dei rapporti economici e amministrativi in atto. Si calcola che tra l’inizio del 1971 e la fine del 1972 le compagnie dovettero negoziare circa 15 accordi, tra cui importantissimo quello di New York del 1° ottobre 1972 che dava attuazione alle decisioni dell’Opec (costituita a Bagdad il 14 settembre 1960 da Arabia Saudita, Kuwait, Iran, Iraq e Venezuela) in materia di partecipazione dei paesi produttori alle operazioni di produzione ed esportazione del petrolio estratto dai loro territori. Un’innovazione che da una parte realizzava le aperture enunciate da Mattei alla fine degli anni ’50 nei confronti di questi paesi in contrasto con la politica fino allora adottata dalle “Sette Sorelle”, dall’altra rifletteva una situazione di mercato non più favorevole al compratore, che preconizzava quindi ulteriori aumenti di prezzo. Di fatto una crisi, quella del Kippur, che funzionò da catalizzatore di fermenti che lievitavano da tempo. Offrendo il destro al più formidabile “cartello” che la storia economica abbia mai conosciuto di usare fruttuosamente per la prima volta l’arma del petrolio nei confronti dei paesi consumatori.

Una frattura, quella con l’Opec, che secondo alcuni paesi l’Aie avrebbe dovuto cercare di ricucire immediatamente, mentre alla fine era prevalso il criterio indicato dallo stesso Kissinger di “un’organizzazione rigidamente difensiva” preposta unicamente a prevenire il sorgere di nuove strozzature negli approvvigionamenti. Un criterio che teneva conto del fatto che era la stessa Opec a puntare a trarre il massimo profitto dalla posizione di egemonia raggiunta nel mercato. Altro che dialogo! Un criterio difensivo che spinse la Francia a non far parte all’inizio dei paesi fondatori dell’Agenzia per paura di reazioni negative dei paesi produttori. Una astensione rientrata solo il 1° giugno 1991, sulla scia del fatto che il tema del dialogo, dopo una serie di infruttuosi tentativi avviati negli anni ’80, cominciava allora, dopo la conclusione della “crisi del Golfo”, ad essere ufficialmente dibattuto. Partendo da un approccio gradualistico, guardando in primo luogo ai problemi della pace e della ricostruzione e in un quadro di stabilità dei prezzi in grado di garantire un flusso adeguato di investimenti e sbocchi certi alle produzioni aggiuntive dei paesi produttori. Nella convinzione di una nuova solidarietà che avrebbe dovuto ispirare i rapporti politici ed economici mondiali e nella percezione dei reciproci vantaggi di una rinnovata integrazione tra le fasi a monte e a valle del ciclo petrolifero. Un tentativo che vide l’Italia impegnata in primo piano e a più livelli.

Ai fini di un giudizio più compiuto sull’operato dell’Aie in quasi 50 anni di presenza sulla scena energetica internazionale e della sua funzione primaria è evidente il ruolo giocato dagli Stati Uniti nell’istituirla e nel portarla avanti, ruolo che non è mai venuto meno. E che durante la presidenza Trump ha risentito della decisione del maggior consumatore mondiale di energia di non tenere in alcun conto gli impegni presi a Parigi nel dicembre 2015 in occasione della COP21 sulla lotta ai cambiamenti climatici e sui tagli delle emissioni di CO2. Ora rilanciati da Biden, anche con la nomina di John Kerry, ex sottosegretario di Stato di Obama, a suo inviato speciale per il clima.

Congelando di fatto per sei anni, in parte anche a causa della pandemia, la strategia di modernizzazione approvata dal Governing Board dell’Aie riunito a Parigi a livello ministeriale il 17 e 18 novembre 2015 sotto la presidenza di Ernest J.Moniz, segretario Usa all’Energia nel governo Obama. Presente per l’Italia il direttore generale Gilberto Dialuce. Un mese prima che, sempre a Parigi, si concludesse il 12 dicembre sotto l’egida dell’Onu la COP21 con un accordo firmato da 195 paesi che fissava impegni molto stringenti in tema di emissioni, che sono poi diventati la premessa di una transizione verso un mondo più sostenibile in cui sulla carta e al di là dei facili ottimismi dovrebbe esserci sempre meno spazio all’impiego di fonti fossili.

Una strategia di modernizzazione che accanto alla necessità di rispettare il mandato dell’Aie di promuovere un’offerta di energia sicura, disponibile ed efficiente, mantenendo ad ogni buon conto in funzione il sistema delle scorte obbligatorie, metteva l’accento anche sulla necessità di sviluppare fonti di energia rinnovabili e pulite, inclusa l’energia nucleare, di tecnologie a basso contenuto carbonico e di nuovi sistemi di produzione e distribuzione di elettricità. Il tutto nel quadro di uno sviluppo sostenibile dove l’efficienza energetica stava diventando il primo combustibile (“first fuel”). Tenendo conto sia delle sfide e delle opportunità legate alla globalizzazione del gas naturale e del ruolo crescente delle economie emergenti. Sottolineando in questo ambito anche l’importanza di disporre di buone statistiche, oltre a quelle sul petrolio per cui l’Aie è giustamente famosa. Il tutto assicurando anche la sostenibilità finanziaria di questi nuovi compiti dell’Agenzia e di mitigarne i rischi. Anche tramite lo svolgimento di studi e ricerche a pagamento per conto terzi (anche del governo italiano in vista della presidenza del G20 su cui non ha mancato di sollevare a fine maggio una serie di perplessità l’ex ministro dell’Industria Alberto Clò).      

Un lavoro di modernizzazione su cui si sarebbe dovuto fare il punto nel 2016 per essere completato nel dicembre 2017. E di cui ufficialmente non si è saputo più nulla. Fino appunto al maggio scorso quando Birol ha diffuso lo studio “Net Zero by 2050”. Concepito e commissionato per fornire una base informativa in vista della COP26 in programma a Glasgow nel prossimo novembre. Un percorso per arrivare a realizzare nell’arco di trent’anni un traguardo ambizioso nel campo delle emissioni, bloccando tra l’altro da subito ogni investimento in nuovi progetti di estrazione e fornitura di combustili fossili. In uno scenario che dovrebbe essere caratterizzato da una forte contrazione della domanda di energia e dell’apporto del petrolio. Nel cui ambito potrebbe venir meno, prima o poi, anche la necessità di tenere in vita il costoso e macchinoso sistema delle scorte obbligatorie.

Sistema che dal 10 febbraio 2013, dopo la controversa esperienza tra il 1998 e il 2009 dell’Agenzia nazionale delle scorte di riserva, è gestito dall’Ocsit, l’organismo centrale di stoccaggio che fa capo all’Acquirente Unico. Il tutto sempre sulla base della legge 7 novembre 1977 n. 883 con cui l’Italia ha recepito con tre anni di ritardo l’accordo istitutivo dell’Aie dando piena esecuzione al programma internazionale per l’energia.

Un’ultima considerazione riguarda il rapporto tra l’Aie e l’Italia che, pur essendo uno dei paesi fondatori, non è mai riuscita a candidare un suo rappresentante a direttore esecutivo dell’agenzia. Salvo l’invio a Parigi nel febbraio 1975, all’atto della sua creazione, di Vittorio Ugo Ristagno, da due anni direttore generale delle Fonti di Energia al ministero dell’Industria, per farle muovere i primi passi prima della nomina di Ulf Lantzke, tedesco, a direttore esecutivo. Un paese, il nostro, che si trovò a gestire la crisi del 1973 in una situazione di dispersione della politica energetica in una miriade di centri di gestione istituzionali e di soggetti pubblici e privati, centrali e locali. Mentre la dimensione dei problemi imponeva al ministero delI’Industria la necessità di far fronte a nuovi compiti, delicati e complessi.

Un rapporto, quello con l’Agenzia, che ebbe il suo periodo più intenso nel 1991 all’epoca della “guerra del Golfo” quando da gennaio a marzo venne attivato e collaudato per la prima volta il sistema di emergenza. Con un dialogo serrato tra il direttore esecutivo dell’Agenzia, all’epoca la tedesca Helga Steeg in carica dal 1984, e il direttore generale delle Fonti di Energia Giuseppe Bianchi, in carica dal marzo 1989 al marzo 1992 all’epoca dei ministri dell’Industria Adolfo Battaglia e Guido Bodrato.
Con la necessità di frequenti incontri e confronti per mettere a punto e calibrare destoccaggi, tagli della domanda, fuel switching e aumenti della produzione interna di petrolio

Un dialogo che oggi ha assunto nuove forme con la presenza dell’Italia nel Governing Board coperta dal gennaio 2020, in piena pandemia, dall’ambasciatore Antonio Bernardini, nuovo rappresentante italiano presso le organizzazioni internazionali di Parigi.  E che ora, dopo l’avvento del governo Draghi e i cambiamenti avvenuti nella compagine ministeriale, con la creazione del ministero della Transizione Ecologica affidato a Roberto Cingolani, dovrebbe essere destinato ad assumere nuove forme e nuovi ambiti. Anche in relazione alla metamorfosi dell’Agenzia diventata ormai a tutti gli effetti una sorta di super consulente in tema di rispetto di impegni climatici che dovrebbero diventare sempre più cogenti.
Con l’orizzonte proiettato ormai al 2050.